Bhagavadgītā, con il commento di Śrī Śankāracārya (Presentazione di Pio Filippani-Ronconi)


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Descrizione

 

«Quando la tradizione è in decadenza, o Bharata, e il pervertimento cresce, allora Mi manifesto»,

dice Krsna ad Arjuna nella Bhagavadgītā, grande testo sacro dell’Induismo, celebre anche in Occidente, di cui presentiamo la prima edizione italiana corredata del Commento di Sri Sankaracarya.

Arjuna, in preda allo sconforto davanti all’esercito avversario dei Kaurava nelle cui fila riconosce parenti, amici e maestri, decide di astenersi dal combattere; le parole del suo auriga, Krsna, che lo esorta ad affrontare la battaglia, costituiscono un insegnamento di straordinaria bellezza e profondità sui principi intellettuali della Tradizione.
Per Arjuna, membro della casta guerriera, sarebbe un errore rinunciare all’azione; l’essenziale è che egli non se ne lasci dominare, che non agisca provando attaccamento per i frutti: soltanto così gli sarà possibile evitare le conseguenze negative degli atti compiuti. Anche le eccezionale individualità di Sri Sankaracarya apparve in un periodo di decadenza, contraddistinto dalla diffusione di dottrine eterodosse e dall’involuzione in senso ritualistico della tradizione vedica.
Analoga in qualche modo all’«azione» svolta da Krsna nei confronti di Arjuna, l’opera di Sankaracarya consistette nel riportare all’integrità la Tradizione indù con le sue due vie, quella della Conoscenza e quella delle Opere.
La prima conduce alla Liberazione, al superamento dei vincoli della forma, l’obiettivo supremo di ogni dottrina pratica iniziatica, l’altra garantisce a chi la segue la felicità terrena e raggiungimento del Cielo, offrendosi così come un mezzo preparatorio alla Via della Conoscenza.
Dunque il cosiddetto «monismo assoluto» di Sankaracarya, che afferma l’illusorietà dei fenomeni e l’unica realtà del Sè, non nega affatto il mondo della molteplicità e l’importanza dell’azione.
Ciò che Sankaracarya vuole distruggere, a ben vedere, è la dipendenza dell’uomo dai propri desideri, dalle proprie rappresentazioni mentali, dalle proprie azioni: è questa la forma peggiore di asservimento, poiché determina la «grande paura» di fronte alla sofferenza apparentemente insensata del Divenire e all’enigma della morte.

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